giovedì 19 novembre 2009

RELAZIONE TECNICA DI UN GRANDE ESPERTO DI ACQUAFORTE

Testo Rubens Immagini


TORNA ALLA LUCE UNA PREZIOSA STAMPA DEL GRANDE ARTISTA FIAMMINGO
LA CENA DI RUBENS
Giovanni Battista De Andreis, artista sperimentatore e studioso di tecniche calcografiche, analizza storia e tecnica dell’incisione derivata dal Cenacolo di Leonardo per una circostanziata e attendibile attribuzione al celebre maestro di Anversa

Se ne conosceva l’esistenza da sempre, da quando si è cominciato a scrivere di Rubens come incisore e più importante diffusore di questa particolare tecnica d’arte.
“Gli amatori hanno cercata avidamente la stampa rappresentante il famoso Cenacolo di Leonardo da Vinci” così la presenta il Ferrario nel suo Le classiche stampe dal cominciamento della calcografia, del 1836. Ogni trattato ne parla, a partire dal Settecento, primo fra tutti il Mariette, assieme alle due uniche acqueforti concordemente attribuite al Maestro fiammingo: la Santa Caterina d’Alessandria e la Vecchia della candela.
La notizia: L’ultima cena, una tra le più ricercate incisioni di Rubens, è recentemente riapparsa presso un professionista romano, il dottor Gilberto de Benedetto.
Certamente un omaggio importante per il celebre e sfortunato Cenacolo dipinto da Leonardo sul finire del Quattrocento per il refettorio di Santa Maria delle Grazie in Milano.
Un bulino che per le dimensioni insolite (mm 996 x 298 al bisello) è stato realizzato su due matrici congiunte: procedimento non certo consueto all’epoca, dovuto probabilmente alla difficoltà di produrre o incidere matrici in rame di dimensioni così ragguardevoli.
Tanto per l’esecuzione quanto per la storia che l’accompagna il recente rinvenimento merita più di una riflessione o di una expertise sbrigativa. La tradizione è unanime nell’attribuire l’incisione alla mano di Soutman, peintre-graveur allievo di Rubens e cresciuto alla sua bottega.
L’autenticità della stampa è garantita dalla tiratura coeva, in primo stato, impressa su carte con filigrane di Leida, in ottimo stato di conservazione. Le matrici originali sono tuttora conservate presso lo Stedekijk Prentenkabinet di Anversa.
Le scritte della legenda sottostante, chiare ma non senza enigmi, impongono qualche considerazione non superflua.
A sinistra, fatto il dovuto riferimento a Leonardo (Pinxit) si legge P. P. Rub. Delin. (disegnò). Manca del tutto l’indicazione solita dell’incisore esecutore, accanto al termine excudit . Perché?
Dopo il termine invenit, (quì sostituito da pinxit, l’autore dell’ originale) il termine delineavit indica l’autore del disegno esecutivo, in questo caso Rubens.
A rigore dobbiamo dedurre che Rubens disegnò - di questo possiamo stare certi, scrupoloso com’era - ma che nessuno eseguì (sculpsit o excudit). Com’è possibile? Le ipotesi non sono poche: l’impossibilità di menzionarlo, che l’artista non l’abbia ritenuto pertinente o necessario, che non era semplice stabilirlo o perché, semplicemente, gli incisori erano due.
Da notare che l’acquaforte, a differenza del bulino che viene inciso, in effetti viene “disegnata”. Forse in questo il senso di quel delineavit, che nel presente contesto assumerebbe un significato particolare: l’autore del disegno potrebbe coincidere con l’autore dell’acquaforte?
La Pinacoteca Repossi di Chiari (Brescia) possiede un foglio similare a questo, non coevo però e sprovvisto di filigrana dove curiosamente si legge, nella specifica della Collezione: “Il nome dell’incisore è stato sostituito da quello del disegnatore”. Una ammissione incauta che non fa che ravvivare gli interrogativi appena esposti. Curioso anche - sempre a proposito di questo lavoro e prassi generalizzata - come gli studiosi parlino indifferentemente ora di acquaforte ora di bulino, mai accennando ad una tecnica composta o comunque menzionando le due tecniche.
Un po’ di storia, intanto.
Disceso in Italia, come ogni buon nordico che intendesse temperarsi nella cultura italiana, certamente impressionato dalla Cena di Leonardo, Rubens non avrebbe esitato a copiarla. E’ quanto
è sempre stato scritto. Ipotesi suffragata, nel caso, dall’unico disegno esistente del maestro riferibile a un particolare della Cena, conservato nella collezione Devonshire a Chatsworth, con ogni probabilità databile tra il 1600 e il 1612 (J.S.Held, L.Burchard, R.A. d’Ulst).
L’interrogativo se il disegno esecutivo finale abbia invece altra provenienza viene dall’esistenza di una copia del Cenacolo vinciano - singolare per l’orizzontalità del formato e la totale assenza di spazio prospettico - dovuta ad allievi di Leonardo (Boltraffio o Marco d’Oggiono ) e conservata alla Royal Academy di Londra (ipotesi E. Moeller del 1952).
Neppure da trascurare, come ulteriore possibile spunto iconografico, una copia della Cena di imponenti dimensioni esistente già nel 1545 nell’abbazia di Tongerloo, a qualche decina di chilometri da Anversa (A. e P. Philippot nel 1967-68).
Sempre in tema di un iter creativo che non può che avvalorare l’importanza data dal Fiammingo a questo lavoro, esiste un disegno, al Gabinetto dei Disegni del Louvre, assai curioso ed eloquente. Sono rappresentate in controparte le sole figure del Cristo e dell’apostolo Simone: un particolare di un eventuale prototipo esecutivo? Il foglio si impone per una peculiarità non indifferente: se da un lato vi appaiono particolari identici all’incisione, dall’altro la posizione delle mani rispetta quella di Leonardo, soprattutto quella a sinistra nella stampa.
Se il disegno fosse derivato dall’incisione le mani non potrebbero che riprendere quelle dell’incisione e non certo tornare al modello di Leonardo. Ma la comparsa del tendaggio, così come il calice e il pane davanti a Cristo, richiamano perfettamente la stampa, per cui, soltanto considerandolo uno studio creativo intermedio (un occhio ancora a Leonardo e un altro teso a modificare) si può legittimarne l’origine non di riporto ma creativa: la mano di Rubens o di chi per lui.

Per cui, nonostante questa Cena incisa pretenda presentarsi come fedele copia nella legenda sottostante - referenza non da poco per il suo successo - l’occhio di oggi non può che coglierne lo spirito di libero d’après, ricco di vistose ablazioni. Ambiente prospettiva e oggetti sono scomparsi, ad eccezione del pane e del calice. In aggiunta, l’esuberante Rubens ha innalzato alle spalle del Cristo il vistoso panneggio piramidale appena menzionato che, mentre evidenzia la maestà del Maestro, crea un trasfigurante moto ascensionale su tutta l’orizzontalità della scena. Libertà espressive che non lasciano dubbi sulla disinvoltura toccata al capolavoro vinciano.
Creativa dissacrazione che aggiunta all’incuranza di presentarsi invertita (speculare) rispetto all’originale conferma la tensione del Fiammingo di avvalersene più per una propria rappresentazione che per diffonderne l’icona originaria. Una anomalia che è bene non trascurare perché mai attuata da Rubens per nessuna trasposizione in stampa delle sue numerose opere di pittura. Trasgressione legittimata forse dall’opportunità che, standogli sott’occhio la perfezione del suo prototipo, egli stesso abbia temuto di indebolirla rovesciandola, per non dire affidarne ad altri il rischio. Un Leonardo alla rovescia per cui, a tutto vantaggio dell’energia del foglio, che dice quanto l’Artista tenesse a questo lavoro, vivendolo come un vero e proprio furto creativo.
Non poco, per l’artista trentenne che si rivelerà il maggiore “imprenditore” della storia dell’arte: fregiarsi d’un colpo della grande tradizione rinascimentale con un trait d’union degno di un vero protagonista.

Da tali premesse, considerato il prestigio del lavoro, può essere verosimile che Rubens abbia saputo trattenersi dall’intervenire direttamente sulla matrice?
Una occhiata non superficiale convince della assoluta armonia dell’insieme: incastri perfetti di luci e ombre, un controllo del segno sempre di ammirevole perfezione: assolutamente convincente nei panneggi e di massima espressività nei volti: sempre inventato e articolato nella raffinata tornitura
delle mani dei tredici personaggi. Tutto con sintesi da maestro. Dove sarebbe improprio cercare il pathos distintivo del Rubens maturo, quei viluppi di energia che lo fanno unico. Piuttosto risulta palpabile una certa sospesa atmosfera di attesa che riporta, per equilibrio e compiutezza, a quel capolavoro giovanile di fascinante bellezza che è la tela “Romolo e Remo” della Pinacoteca Capitolina di Roma, dipinta ad Anversa nel 1616.
L’attribuzione a Pieter Claesz Soutman - così come quella più difficilmente sostenibile a Vosterman, di recente avanzata da De Liberis - merita qualche riflessione. Intanto la curiosa, non trascurabile coincidenza che un foglio importante del Soutman, La Caccia al cinghiale, risulta inciso su due matrici, esattamente come il nostro soggetto. Tecnicamente E’ sempre presente in Soutman (come ha rilevato con acutezza L. Leeber) un puntinato fine, a volte circonflesso, per accompagnare il volume dei corpi e dare rilievo agli incarnati nei passaggi di maggiore finezza; procedimento tipicamente pittorico di possibile suggerimento (o suggestione) rubensiano.
Mancano comunque prove certe, nonostante il Soutman fosse pittore e incisore, di una collaborazione ristretta tra lui e Rubens nell’ambito dell’incisione. Ciò che sposterebbe questa attribuzione ad altri incisori: Cornelis Galle il Vecchio (conosciuto da Rubens in Italia), Boetius Adamsz Bolswert, Willem Isaac Swanenburgh e qualche altro, o confermare l’incisore eccellente dell’atelier Rubens, Lucas Vosterman. Evidente, consentendo quest’ultima attribuzione, che la data verrebbe dilatata dal 1610 al 1620.

Ma in quale ottica il Maestro vedeva il rapporto con i suoi collaboratori? Una solidale vicinanza è certa, ma lo è ancor più la puntigliosa accuratezza che egli pretendeva nella fase di riproduzione di prototipi che egli stesso era solito portare alla perfezione. E’ certamente la causa dei ruvidi, avventurosi contrasti emersi con Vosterman (troppa albasìa, a detta di Rubens), unanimemente considerato il suo intagliatore di maggior talento, ma il cui rapporto con il Maestro, per quanto ci riguarda, viene costretto ai quattro anni che vanno dal 1618 alla tempestiva rottura del 1622; per riprendersi poi (miracoli dell’arte!) dopo il 1630.
Rubens era fin troppo consapevole, a sue spese, che quando non personalmente controllata la qualità del lavoro poteva slittargli di mano. Mi piace citare l’umiltà davvero commovente dell’Artista che aveva ormai conquistate tutte le corti d’Europa. “Con tutto ciò posso dire con verità, che li dissegni sono più finiti e fatti con più diligenza che le stampe, li quali dissegni io posso mostrare ad ognuno poiche li ho in mia mano”.
Come accaduto per la disgraziata serie delle illustrazioni per la vita di Ignazio di Lodola - incise a Roma dopo la sua partenza per Anversa - di una mediocrità disarmante, benché “L’unico disegno che ne conosciamo, ora al Louvre, sia di rara intelligenza e sensibilità” (D. Bodart 1977).
Quanto egli stesso lamenta in una lettera enigmatica del 23 gennaio 1619 diretta a Pieter Van Veen e riferita probabilmente al Vosterman: “Havrei ben voluto che l’intagliatore [bulinista] fosse riuscito più esperto ad imitar bene il prototypo, pur mi pare minor male di vederli fare in mia presenza per mano di un giovane ben intentionato che di gran valenthuomini secondo il loro capriccio”. Non c’è migliore conferma della preferenza di Rubens per intagliatori rispettosi delle sue direttive piuttosto che per l’estro di genialità ingovernabili.
Federico Zeri amava ripetere (l’ha scritto anche in qualche suo libro) che mentre un capolavoro sopporta qualsiasi ingrandimento, sempre migliorando, una brutta opera non può che peggiorare mano a mano che viene ingrandita.
Entrando nell’incisione, si riscontrano subito due differenti tecniche. Un potente ingrandimento permette di distinguere le diverse specie e modi di interventi e, ciò che più importa, i “tempi di esecuzione”. Intanto la traccia, cioè il disegno che contorna forme e figure, risulta incisa all’acquaforte: un segno morbido e sensibile, robusto e deciso. Tutte le figure e i profili dei volti appaiono tracciati da questa mano: una varietà e intensità d’espressioni non certo da copista! Il secondo stadio risulta eseguito al bulino: una mano assai abile ha dato corpo alle figure con un
intaglio secco e preciso. Di rilevante interesse i punti più delicati degli incarnati: la mani soprattutto, trattate con interventi di finissimi punteggiati, vibrazioni infinitesime per imitare una resa di materia pittorica.
Ecco al terzo livello riapparire l’acquaforte. Com’è possibile, trattandosi sempre di acquaforte, che le due fasi non siano state eseguite contemporaneamente?
E’ questa la scoperta più affascinante. Scrutando l’energica tratteggiatura delle massime ombre (specie tra i capelli degli apostoli e ovunque appaiano rinforzi consistenti) si osserva che le linee di di tratteggio procedono a scatti, come a balzelli. La mano dell’incisore sa riconoscere tali scatti: il caratteristico salto della punta d’acciaio (puntasecca) ogniqualvolta interseca i solchi del bulino o dell’acquaforte sottostante. La sicurezza con cui si riesce qui a padroneggiare la direzione del segno, per quanto gli incavi possano impedirlo, rivela l’artiglio del Maestro. Per esperienza so quanto in un intervento del genere risulta difficoltoso, anche alla mano più esperta, mantenere la direzione voluta.
Se un intervento all’acquaforte - dove si disegna, è l’acido a incidere - può risolversi in tempi rapidi, la lavorazione a bulino comporta, oltre una ammirevole pazienza, tempi notevoli: un rapporto da giornate a mesi.
Questa considerazione conferma che un disegnatore prodigioso come Rubens era in grado di intervenire in tempi assai rapidi all’acquaforte, lasciando al paziente lavoro del bulinista tutto il rimanente, purché sempre sotto controllo. Un procedimento identico a quello di molti suoi disegni. Nelle stupenda Testa a sanguigna di bambino del Metropolitan Museun of Art egli traccia appunto a sanguigna le parti più luminose e delicate, lasciano poi agli interventi energici del carboncino tutte le parti rinforzate in ombra. Nell’incisione la sanguigna corrisponde al bulino e il nero del carbone all’acquaforte.
La lettera sopra menzionata evidenzia che l’Artista considerasse l’incisione come emanazione della sua propria creatività. Il suo occhio straordinario non poteva che fargli ricercare nell’opera stampata quelle stesse caratteristiche di verità ed energia che ricercava nell’opera dipinta.
Una energia che egli riusciva a suscitare, come nel caso di questa incisione, avocando a sé tanto la parte iniziale quanto quella finale del lavoro, con la stessa fluidità con cui riusciva nei dipinti a interscambiarsi con i suoi valorosi aiuti. Una bottega, la sua, che ha saputo gestire, oltre uno stuolo di incisori di considerevole statura, artisti della levatura di Van Dyck e Jordaens: il più importante esempio di gestione di creazione artistica di ogni tempo.

Eccessivo pretendere che per questa Cena il Maestro abbia potuto mettere mano anche al bulino, nonostante la sua pratica accertata dello strumento, e la definizione di “Pittore del bulino” attribuitagli, non senza ragioni, da Mariette.
Per mio conto è sufficiente, dato il valore del suo doppio intervento in acquaforte, la certezza che egli ha tenuto sotto controllo l’intera lavorazione, con un’attenzione specifica all’intaglio. Per il quale non credo ragionevole, in ultima analisi, spostarsi da Soutman; non fosse che per le sue documentate capacità e per rispetto di quella tradizione che concordemente lo richiama. Una attribuzione diversa suonerebbe meno giustificata, come anche quella a Vosterman, avanzata dal professor De Liberis, mi sembra posticipi troppo una esecuzione che io sento collocarsi nel primo decennio del Seicento.
Per cui, come per gran parte del suo stile di produzione pittorica, è possibile a pieno titolo ascrivere alla mano di Rubens la piena paternità di questo stupendo e singolare foglio. Una qualità e una rarità di cui non è certo agevole ipotizzare un possibile valore di mercato. Nella misura in cui è difficile precisare quale valore si intenda e, soprattutto, a quale mercato ci si voglia riferire.
Come artista e come appassionato studioso di questa meravigliosa arte su carta non posso che concludere: allo stesso modo che un appassionato di Rubens ricerca una sua opera autentica di pittura si può parimenti restare affascinati da questa originalissima “Ultima cena” del grande maestro di Anversa.

lunedì 19 ottobre 2009

CENERE DI QUADRO


Estrema provocazione nel mondo dell'arte pittorica




Milano: arriva la cenere di quadro
Dopo la “merda d'autore” la nuova provocazione nel mondo dell'arte è la cenere di quadro.


Era dal 1961, quando l’artista Manzoni presentò la “merda d’autore”, che si attendeva una provocazione di livello, e sembra sia arrivata (prima nella storia dell’arte). Hypnos (www.hypnosarte.com) pittore emergente e trasgressivo, ha presentato nella sua galleria, sette urne colorate nel cui interno ha riposto le ceneri delle sue opere più importanti, l’autore con questa performance, ha voluto rappresentare la morte dell’arte pittorica ed un invito al mondo dell’arte ad un rinnovamento coraggioso che non tenga presente lo strapotere dei mercanti dell’arte, ma il rispetto di se stessi anche se quest’ultimo dovesse scontrarsi con le regole di mercato.
L’autore della performance in una nota afferma: “Siamo ancora capaci di far fuoco e fiamme per salvare il salvabile? La mia reazione a un mercato dell’arte falso e ipocrita è così forte che sono arrivato a fare della morte dei miei quadri più significativi il terreno privilegiato del mio sentimento di libertà.
Bruciare le mie opere più importanti, non è stato un inno alla morte come fine, ma un invito al rinnovamento interiore dell’artista, e una protesta dura nei confronti del mondo dell’arte, troppo mercificato e addomesticato alle esigenze speculative dei mercanti.”

Francesca Triticucci



Link: http://www.hypnosarte.com

hypnos e la cenere di quadro

Milano: arriva la cenere di quadro
Dopo la “merda d'autore” la nuova provocazione nel mondo dell'arte è la cenere di quadro.


Era dal 1961, quando l’artista Manzoni presentò la “merda d’autore”, che si attendeva una provocazione di livello, e sembra sia arrivata (prima nella storia dell’arte). Hypnos (www.hypnosarte.com) pittore emergente e trasgressivo, ha presentato nella sua galleria, sette urne colorate nel cui interno ha riposto le ceneri delle sue opere più importanti, l’autore con questa performance, ha voluto rappresentare la morte dell’arte pittorica ed un invito al mondo dell’arte ad un rinnovamento coraggioso che non tenga presente lo strapotere dei mercanti dell’arte, ma il rispetto di se stessi anche se quest’ultimo dovesse scontrarsi con le regole di mercato.
L’autore della performance in una nota afferma: “Siamo ancora capaci di far fuoco e fiamme per salvare il salvabile? La mia reazione a un mercato dell’arte falso e ipocrita è così forte che sono arrivato a fare della morte dei miei quadri più significativi il terreno privilegiato del mio sentimento di libertà.
Bruciare le mie opere più importanti, non è stato un inno alla morte come fine, ma un invito al rinnovamento interiore dell’artista, e una protesta dura nei confronti del mondo dell’arte, troppo mercificato e addomesticato alle esigenze speculative dei mercanti.”

Francesca Triticucci



Link: http://www.hypnosarte.com

Hypnos visto da deliberis


Dopo moltissimi anni di astinenza, cioè dagli anni 70’ e 80’ la cultura italiana deve riscoprire quali nutrimenti vitali dell’arte, la pittura cosmica erede del surrealismo storico. Solo l’editoria più attenta ha presentato testi di questo movimento che non si è mai definitivamente compiuto, mentre invece è presente nella elaborazione critica soprattutto svolto dagli studiosi stranieri.
Già il surrealismo è stato mal collocato nel panorama artistico italiano e la cultura italiana ha sempre scartato il nodo di relazione per una lettura profonda di questa corrente e della sue motivazioni, nonché degli sviluppi in chiave estetica.
Nella ricerca del Di Benedetto l’arte cosmica è intesa come scontro di energia e di forze vitali, che si realizzano attraverso un impeto gestuale con il segno dei vortici; vi è uno sforzo notevole per una rilettura problematica delle motivazioni e dei fatti che hanno indotto l’artista a seguire questo percorso, per cui l’analisi delle opere deve limitarsi ad omologare una interpretazione del surrealismo in chiave psicologica.
La via seguita dal Di Benedetto è perciò quella di sviluppare non solo una analisi puramente stilistica, ma un operazione tendente ad isolare il valore dell’arte quale strumento interattivo, che ci risulta in definitiva non bene precisato e che provoca raccordi tra la pittura del surrealismo e l’arte cosmica incentrandosi sulla necessità dell’attrazione quale forma scatenante la ipnosi.
Come Freud aveva rinunciato all’ipnosi a favore delle libere associazioni del proprio lavoro di analisi, così Di Benedetto subordina l’automatismo e la stessa creazione artistica alla immaginazione dei vortici e del colore volti invece all’ipnosi, cioè all’attrazione incosciente delle proprie opere.
Questa è una facoltà che nasce proprio dall’opera d’arte del maestro, la quale servendosi dell’immaginario cosmico riesce a provocare quell’automatismo teso a condurre il suo scandaglio nel dominio sconosciuto dell’inconscio.
L’opera d’arte perciò si pone quale forza attiva che si lascia sedurre dall’osservatore, ma che poi riesce penetrare nel profondo inconscio ed a turbarne la nostra psiche.



Andrea De Liberis

la critica di Hypnos (Alfredo Pasokino)


Brilla una nuova stella nel firmamento della pittura

Gilberto Di Benedetto Il famoso psicologo e psicoterapeuta (in arte hiypnos) prestato all'arte pittorica folgorato sulla via dell'astrattismo informale.

Le immagini pittoriche così emotivamente coinvolgenti di Gilberto Di Benedetto, psicoterapeuta romano e sensitivo medianico senza aggettivi, che vuole raccogliere e raccontarsi per reimmergersi alle radici e nelle radici del proprio essere. Per mettersi in gioco, per abitare stabilmente la situazione di corto circuito tra il senso ancestrale della materia nella sua definizione cosmica ed il permanente tentativo di penetrazione; di carpirne l'anima e il segreto, il condensato ultimo, l'assurdo psichico teatro delle immagini. Per compiere un processo di rimitizzazione e prendere sul serio le figure dell'inconscio, riconoscendo loro la qualità di interlocutori.
Una necessaria rinuncia alla spettacolarizzazione, ogni suo quadro è un'avventura di esplosive scansioni di fiammate segni che, e di forme colore, a cui si concedono solo alcuni grumi di fisicità, rare estrapolazioni di materia pittorica, improvvise fibrillazioni dei segni cromatici, ambragite sequenze fioccose (2005), che ricordano le tele ulcerose di Burri, l'artista con la stessa materia di natura onirica, affida alle immagini il compito di parlare allo sguardo, con urgenza liberatoria di energie proprie. Per questo le medesime non hanno una funzione meramente esornativa, bruciante di cogliere oltre l'immagine il senso del messaggio personificante di una condizione altra, come contagio dissolvente, liberatorio, a volte centrifugo.
Corrispondenza, suggestione e volte inquietudine nell'impatto visivo, automatismo biografico, memoria, dualismo, dinamismo con l'essere accanto, prossimo al diverso. E' un'esperienza automatica che pone sulla tela una sorta di rappresentazioni figurali in dicotomia col proprio pensiero psichico, impressionanti, pregnanti ed elusive ad ogni percorso erratico che vorrebbe rendere incomprensibili nel tema, i contenuti, perché intossicato dai pensieri. Ma anche affermazione, voce dell'urgenza del flusso comunicativo, libera dalle briglie della composizione concettuale, lasciare una traccia non solo verbale ma contribuire a dare forma alle emozioni (arte), a ciò che si è presentato. E infine, nulla di tutto questo, la tentazione di concedersi ad una fredda successione di algide illibatezze estetiche, rimanendo aggrappati alla figura.
Idealità di un supporto d'anima testimone di incredibili accadimenti. Sulla via dell'astrattismo informale, Gilberto, artista nei suoi snodi più drammatici, non richiede solo l'adesione a una filosofia di archetipi junghiani, ed un'etica dell'arte e della comunicazione, ma anche di possedere, con la complessità dei processi comunicativi legati all'arte, gli strumenti conoscitivi indispensabili, per confrontarsi con l'oggetto dell'incontro. A non ridurre a pura tecnica la pratica della comunicazione.
Nelle sue opere, ritornando ai punti di tangenza tra le varie espressioni, la pluralità dei soggetti rappresenta l'affermazione di proiettare sulla tela nuovi moduli evocativi, ricchi di gestuale affermazione segnica di campi di forza dell'energia. Inedito fondamentale atteggiamento di aggredire il telare, non spazio virtuale, ma reale supporto di visioni capaci di influenzare con irruenza la mente dell'osservatore, di chiamarlo in causa, non farlo accomodare ma di produrre un'osmosi di quesiti interrogativi pre-divinatori, che toccano tutte le stazioni più importanti del tragitto umano.
Ciò scaturisce anche dal carattere eminentemente istantaneo dell'informale: l'opera è quasi una scrittura privata, un dettato inconscio dell' io artistico, una presenza occulta che si cela dietro ai colori rutilanti. E si palesa al di la della visione metafisica ancestrale onirica dell'essere.
Il suo desiderio di proiettare all'esterno entità e simboli vitali, con la predisposizione di una trance-fauve, di tumultuoso trasporto espressivo, di vivace componente umana di energia liberata autonomamente dal profondo principio trascendente un io inconscio, per cui il colore diventa icona-missile, senza distinzione fra pittura e segno, anzi di segno graffiante, di effusivi evocativi cosmi dimensionali in combustione inestinguibile, travolti dal caos primordiale, caleidoscopi fauves di ritrattismo antropomorfo, che si intrecciano e si sfiorano fra loro, quasi sospesi nello spazio di un invisibile bacinetto igneo dell' introspettivo inconscio umano, sottratti alla forza di gravità.
Queste figure e altre, cariche di simboli ancestrali, recuperano l'empito espressionista di un Emili Nold e l'eco metamorfico ribelle di un Paul Klee, e si ricollegano a componenti affabulanti di mondi, in tipologie e loro forme di interazione, all'estremo confine di arte cinetica, le cui scene si fondono dialetticamente fino al precipitato morfologico di un'arte multimediale.
Evidenziano la volontà di comunicare mediante la volontà di una trance istintiva, attraverso un racconto che ha fatto tesoro di una tradizione degli antichi testi, ad icone ieratiche spinte ai limiti dell'astrazione informale, ad uno psichismo esasperato, proiettato con forte esigenza plastica di superficie sull'opera, trasmettendo al fruitore attento ma attonito, che spesso subisce uno spiazzamento di coscienza, per la codificazione di iconografie concomitanti e di contaminazioni che investono sia gli aspetti informali che tecnici, un pathos che non viene mai meno.
Tra l'altro, indicativa è The Michael's Gate 2007. Ed un coacervo rappresentativo di energie cosmiche endogene, espressive di entità astratte che le abitano, che si manifestano e comunicano attraverso il colore, (2009) di cui ogni elemento strutturale, come guizzo segnico-cromatico di una fiammata inestinguibile, evidenzia il proposito di collegare il passato con il futuro, verso un'ascesi laica da ogni presupposto letterario, abitata da considerevoli apparizioni
affacciate e riflesse quindi dal pennello alchimista del Di Benedetto. In cui l'Universo totale (oggettivo e intersoggettivo-inconscio), riacquista il suo stupore e la sua luce originaria.
Pittura senza nessuna concezione concretista ha scelto nell'esprimersi, e dunque diventare una pittura filosofica per di svelare al meglio le sue nature; da tutto questo, trae energia di sé, una forte energia esplosiva come un ultimo spasmo, come il plasma di un vulcano ... prima di spegnersi: è ora. L'esperienza di Gilberto è sufficientemente profonda da essere conservata, finche non cade come in sogno. Immagini che potrebbero definirsi astrattamente come mezzo di estrinsecazione tra angeli e uomini. Ma che volta a volta potrebbero assumere concretamente, a seconda dell'associazione mentale, richiamata come apparenti, castelli di sabbia, feticismo, qualcosa di apparentemente inanimato, volto a sostituire reali scambi tra il giardino dell'ombra che abita in noi, e la capacità di stare in mezzo alle incertezze, ai misteri, e ai dubbi ... Come quella di stare accanto agli altri e a noi stessi, senza muoversi, accettando di non capire e che l'altro sia quello che è. Come per la musica, l'abbaglio per un solista é dilatare il proprio ego, dimenticando che la partitura è opera. Come modello e modulo di inquietudini, non basta esistere, bisogna avere una.
La solitudine fa crescere la paura e ci inventiamo persino nemici comuni per credere di essere uniti e solidali.
Preferiamo un encefalogramma piatto ai sussulti di un cuore. Il cerchio a noi si stringe, lo abbiamo stretto fino a isolarci. E rimaniamo soli, e sempre più. La solitudine ci ha ridotti a una vita vuota senza pensiero. Una politica dell'esistere che non scalda il cuore, che non spinge le persone a unirsi, ma le divide, una per una con l'indifferenza.
Contemporanei nel nostro viaggio mentale, di vuoto, al di fuori degli stimoli della realtà.
La pittura di De Benedetto è lo specchio interrogante di questa coscienza, come cartina di tornasole di questa reazione: più ci sentiamo soli e più ci aggrappiamo a idee astratte, e vaghi come identità. Vivere molte vite nell'arte, è analisi e terapia al contempo. Ogni suo quadro e aperto al presente, è sempre parvenza d'identità: l'è sempre un altro!

Il pennello lungo traccia dei segni che si compongono in immagini, in sfumature di colore, la mano si abbandona a quei segni vorticosi dinamizzanti che scivolano rapidi istintivi, sicuri e i segni paiono note e suoni kandiskijani interni che fuoriescono spezzati e cacofonici, strumentali. Ci torna in mente Alberto Burri, ma su quelle grandi lacerazioni sui sacchi e plastiche bruciate, c'è la presenza della materia che si squarcia e si scioglie; c'è l'essenza della presenza umana.
L'uomo non esiste più per Burri, è stato inghiottito in quei crateri che solitari giganteggiano sulla superficie dell'opera. Un discorso attento impegnativo, va riservato all'autore strettamente contemporaneo, l'io di Di Benedetto.
L'artista si rinchiude in sé, diventa autoreferenziale, si dibatte, prende mille volti..., dichiara la propria costanza psichica, scopre le sue scissioni, affonda nella dispersione di un io diviso, una vertiginosa apparente frammentazione...; ma se acquista profondità psicologica, l'io perde in esemplarità ideologica, in solidità concettuale. Preferisce sottolineare i limiti, ciò che è inafferrabile, indicibile. Spesso, l' non può afferrare le origini della sua forma mentis, se non attraverso l'io di Gilberto è uno, è l'Occidentale tutto, anche in terra straniera. La sua storia, non più come entità Assoluta, ma come Relatività, perché si tende consapevole all'esistenza di altre . Ritrova il significato di dipingere al di là di tutte quelle retoriche accademiche e pseudo-filosofiche. Dipingere, ora per lui, è testimonianza di una volontà di ricerca, oltre alla storia finora vissuta, che Io, uomo avevo per il come mi ero strutturato, in questo modo e che possibilità avevo, una volta capito di propormi l'Altro! Non più il tradizionale monologante dei pittori volubili e narcisisti, ma la messa in scena di tanti io, ciascuno che parla una lingua diversa, con abitazione comunitaria del proprio inconscio, con forza di potere e centralità propria evocativa, sufficiente per parlare agli.
Per gli altri. Ma il suo messaggio - da lingua di tutti - è diventato potere di nessuno. diverso da quello attuale. Fare l'opera e rifare l'uomo-artefice, è identica cosa. Per Di Benedetto l'Arte ora, è creazione di se stesso. Ogni immagine è l'essenza, anche antropomorfa dell'entità che la fa! L'altro diventa indefinito, gli altri sono tutti e nessuno (Il Guardiano della Morte). C'è difficoltà nell'analisi critica, di agganciare la nebulosa massa anonima, dove non c'è il, col suo nome e il suo volto. Lo sbandamento dell' io diventa lo sbandamento del linguaggio pittorico.

Finché riuscivo a tradurre le emozioni in immagini - dichiara Di Benedetto a proposito del suo percorso di autoanalisi grafica - e cioè a trovare le immagini che in esse si nascondevano, mi sentivo interiormente rassicurato. Tra il senso ancestrale dell' iconografia delle forme pensiero e delle forme-colore, intese nella loro definizione cosmica, provenienza oscura, buio dell'inspiegabilità universale, e il permanente tentativo di penetrazione, fino alle cateratte del senso dell' io profondo. Per carpirne l'anima e il segreto, e il condensato ultimo : l'emozione informale.
Non vi è salvezza se non si parte dall'immagine. Le stesse continuano a identificarsi con figure e cromatismi nelle registrazioni di istintuali visioni emotive di profonda inquietudine, agganciate alla pura idealità, non certo con la pretesa di produrre grande arte, ma piuttosto dall'esigenza di dare forma alle proprie intuizioni, di oggettivarle senza che vada persa quella concretezza che apparteneva a loro sin dall'origine: un esplosivo informale creativo di nitore cromatico purissimo; riproponendo le sue angustie, la sua ricerca di identità come urgenza inestinguibile.
Non importa se l'immagine non comunica l'evento , altri mezzi sono preposti allo scopo... tra cui, l'indotto emozionale del suo potere: Io l'ho provato e la mia vita è cambiata, informano i lettori web. Ciò che importa è che liberi le più nascoste, le mostri a se stesso, le maturi e restituisca la Coscienza dell'Unità, che dispersa nella notte del dualismo conflittuale, non è morta, alla dimensione del reale-temporale che avanza, quella al di fuori della processione di cause-effetti nel . Vivere molte vite nell'arte, così è come evocarle, senza nemmeno sfiorare un autoritratto biografico convenzionale. Si può mettere uno specchio a terra, come ha fatto il giovanissimo Emilio Vedova, comunque l'immagine che l'uomo ha di sé, nella pittura, è comunque truccata, verità illusoria, nicciano gioco a rincorrersi, molto più vicino ai miasmi pericolosi della psicanalisi freudiana. Lo ha intuito uno psicoterapeuta-pittore come Di Benedetto, richiamando la memoria sui versi di un poeta come Arthur Rimbaud, Je est un autre, io è un altro, che non a caso rifugge dal fascino della pittura iconografia dell'autoritratto: l'io non sono più io, liberato da se stesso, geloso di interpretare nell'arte molte vite.
Una realtà intersoggettiva, comunitaria che funziona molto meglio di tanti discorsi iconografici e iconologici, biografici sull'identità dell'autore di un quadro, e il poco indagato confronto tra l'io e gli altri, stile, anima, a tu per tu. Non ancora sarebbe il titolo appropriato per riassumere tutti i suoi quadri... e quelli a venire! Stante a significare che l'immagine non ha ancora raggiunto la sua totale pienezza espressiva, e le implicite valenze evocative atte a liberare quelle Entità archetipe inconsce. Gli interrogativi sono ancora molti e inquietanti, pari alle stesse sue emozioni informali, come sempre è Picasso a dare il tocco di genio che abita in noi: aveva intuito che diverrà il truccatore e lo struccatore, lo stuccatore dell'arte moderna, serissimo attore che esprime se stesso, uomo: Io, altri e l'arte.
Di complice partecipazione emotiva, le immagini pittoriche di Gilberto, continuano a identificarsi come figure iconografiche... Immagini quasi figurali nella percezione comune visionaria di figure con l'esigenza che qualcosa da loro emerga, presenze senza quasi esserci forma, loro progettualità compositiva e ironicamente sottoposte ad uno sguardo che le restituisce come residuo indistinto, a giusti rapporti tra materia e tensione emotiva, forza implosiva ed effusiva, reattive e metamorfiche.
I concetti conservano sempre un legame con le immagini da cui, per cosi dire sono emerse, a conferma di un atteggiamento radicalmente rispettoso nei confronti di ogni riduzione della vita simbolica a modelli di interpretazione causale. Se Gilberto si fosse fermato alle emozioni, forse sarebbe stato prigioniero dei contenuti dell'inconscio.
E non è un caso che, alle dominanti archetipe intersoggettive, egli abbia dato nomi fortemente evocativi. Non si tratta di concetti drammatizzati, quanto di esperienze originarie. Non solo la visione interiore, ma spesso anche il gesto precede il pensiero. Un suggestivo repertorio di opere per compiere un processo di rimitizzazione e prendere sul serio le figure dell'inconscio, riconoscendo loro la qualità di interlocutori. Ogni quadro un'avventura, la riduzione dell'uomo alla maschera, lo svuotamento progressivo dell'interiorità a favore dell'immagine. E anche il tema della memoria, tanto che si incrocia con quello dell'alterità.
E' incredibile per chi si occupa d'arte, ritrovi tra nomi d'eccezione i versi di un poeta francese, adolescenziale quanto sovvertitore di verità e luoghi comuni come , ed anche declinazioni diverse della stessa nozione di verità, che tende sempre più a coincidere con una realtà intersoggettiva, comunitaria, riferibile solo alle stanze dell' profondo umano.
Così è ascoltare gli altri per potere essere io. Questa dimensione dell'ascolto reciproco. Quello del cuore, con i suoi silenzi parlanti... e l'ascolto esterno, per capire se stessi, declina per Di Benedetto un transfert-trascendente, una trance di trasporto: l'essere, l'apparire, la verità e le maschere; l'arte e il suo consumo pubblico si fanno facilmente metafora. Questo apparente suo sacrificio della soggettività, diventa la condizione indispensabile per affermare la necessità di un percorso e di un obiettivo condivisi. Questa sua dimensione dell'ascolto reciproco, in un contatto continuo, fra l'arte e la sua lettura - tra chi dà e chi riceve - senza nessuna messinscena, richiede sensibilità e senso di civiltà nella conversazione, che impone le proprie regole: attenzione, concentrazione, fede e attesa. della comunicazione, getta lo scandaglio nel lago più profondo del fruitore. La dialettica tra individualità e umanità, fra autonomia e affinità e omogeneità nelle qualità reciproche in sintonia.
Sembra quasi porsi come il paradigma di una cultura ideale, con l'immediata percezione della differenza tra cultura ideale e cultura reale. Tale controllo è difficile per chi è portato a considerare al proprio posto il proprio. Non c'è pittore, sia pur nel controllo della propria professionalità, che quando ha iniziato a dedicarsi alla tavolozza e al cavalletto, non abbia pensato di diventare un genio, soprattutto in un Paese come l'Italia, che nelle proprie scuole di formazione, nelle Accademie, ora anche nell'Informatica, coltiva il mito del, del genio precoce, dell'artista incompreso. E quanto l'accumulo della disillusione dei mancati solisti del pennello, sia personalmente frustrante e socialmente paralizzante. Quando l' di un pittore si trasformi in epidemia che contagia gli . Perché l'arte, in genere, è una disciplina regolata dal più palese principio gerarchico, quello della qualità. Si vede e si sente. Non si può per esempio nella musica, raccontare a parole, ma si intende perfettamente. L'abbaglio accecante per un artista è dilatare il proprio io, nel più irrefrenabile dei propri deliri di onnipotenza.
Ogni quadro è un'esibizione, un confronto, l'attesa di un giudizio. Mentre il gesto della mano può impressionare gli osservatori, la qualità dell'esecuzione, vale a dire, l'aspetto del dirigere l'impianto della composizione è indipendente da ciò che l'artista fa credere ai presenti.
Dice Di Benedetto: il primo passo per dipingere bene è... un passo indietro! Ascoltare gli altri, nel presente come nel passato, le mille voci che animano il proprio sé profondo, per capire se stessi. Per potere, forte espressione di vita interiore.
L'incredibile percorso pittorico dello psicoterapeuta - pittore, mostrano la straordinaria capacità di penetrazione, di svelare gli aspetti inediti e profondi della personalità informale nell'astrazione del sé individuale, al tempo stesso persino rivelatore di dinamismi e transfert esterno degli infiniti soggetti vitali, abitatori dell'animo umano, Anime spogliate e pronte con la compostezza dello spirito classici più puro... Il miracolo, nella semplicità dell'astrazione rivelata, il potere del risveglio creativo dell'Assoluto filtrato nel relativo umano, aspirazione all'ascesi di una scala occulta di energie delle sette note.

ALFREDO PASOLINO
Critico internazionale e storico dell'arte (2009)

MICHAEL'S GATE

La pittura archetipale
Un nuovo orizzonte di senso per la pittura

Elio Mercuri, critico d'arte internazionale presenta la pittura di hypnos (Gilberto Di Benedetto).

La ricerca di Gilberto di Benedetto, Hypnos, muove all’interno dell’informale con la scelta decisa della pittura come linguaggio del profondo sul rapporto sguardo, emozione, mano nella simultaneità che svela l’immaginale. Le sue opere sono crateri aperti dall’esplosione di un vulcano che apre la terra, il muro nero che occulta la terra è fuoco, il suo rosso amico, energia che provoca vertigine. Il rosso-eros che da comunicabilità e libertà ai vuoti interiori, a tutto ciò che dentro di noi non diventa vita ed è quotidiana tensione e sofferenza. Poi, la intensa e tenace ricerca di attivare i poteri di una sensibilità e personalità. Particolari, dono di natura attraverso lo studio, l’esperienza, delle scienze umane e delle scienze occulte; del pensiero e della magia per pervenire alla verità dell’esistenza.
Non lascia intentata nessuna strada per liberarsi dall’ “errore” nel “sentiero interrotto”, dal destino; risposta alle interrogazioni inquietanti dei giorni, varcare le soglie dell’oltre, nella sfida sull’orlo dell’abisso.
In questa ricerca, di trovare la concentrazione capace di azzerare l’eterno (il nero) e aprire al viaggio studio. Nel messaggio dell’araba fenice, di oltrepassare i confini; incontra l’ipnosi e il potere dell’ autoipnosi che permette di dare visibilità al linguaggio dell’anima (Lacan ha sostenuto che l’inconscio è strutturato per immagini) e aprire nuovi orizzonti di senso per la pittura .
Dal primo percorso della stagione informale attraverso l’autoipnosi elabora la nuova dimensione della sua pittura che per riferimento alla psicologia archetipale di Hillman (autore fondamentale per Hypnos) noi definiamo “pittura archetipale” capace di dare espressione-immagine, oltre io segno all’anima.
Lo stato di ipnosi gli permette di dare forma a tutto ciò che nella quotidianità è informe ed il nostro inconscio, cuore di tenebra, linea d’ombra, nero e non il luogo dell’incontro con l’infinito (l’inconscio come infinito di Malte Blanco) e riuscire più che la formula della matematica e i simboli delle scienze a delineare la logica della simmetria, che ci consente di convivere non più nella scissione e nell’occultamento ma nella verità.
Ha scelto il nome Hypnos, il sonno, per quel legame intimo con “Thanatos”, che ci riconduce nella liberazione dalla fenomenologia, all’archetipo e nell’ “esserci”così come siamo esistenza, provare il brivido dell’Essere, la totalità, l’immanenza in ogni manifestazione ed ente nella dimensione tempo. Il colore, nella sua dialettica di rosso e nero è luce che apre le prospettive dell’Infinito.
È il segreto e la magia della pittura come questa esperienza attraverso l’azione della mano si completa e riveli la sua originalità pur nella continuità con la storia dell’arte.
Guardare queste opere richiede un tempo lungo: è necessario andare oltre l’attrazione immediata, il sortilegio dello sguardo; assorbire il brivido dell’emozione, trasformare la caduta della vertigine in meditazione e concentrazione nel viaggio dentro a seguire quella luce che allarga spari nell’infinito notte e nella nostra esistenza dai conflitti, sedati dalla comunicabilità, dell’anima ci introduce al mistero cosmico, nella polarità che sostiene ogni presenza, del cielo e del quotidiano, dell’assoluto e dell’effimero; della precarietà della morte e dell’eternità della vita.
Allarga i poteri e i confini della pittura in questa emozione dell’ipnosi che prende corpo oltre l’emozione dei sensi nella rivelazione della verità.
E' l’arte a rendere possibile questa esperienza, la forma più alta di conoscenza concessa all’uomo prima di compiersi nel suo destino .

Elio Mercuri

martedì 27 maggio 2008

Michael's gate


Questa immagine e' dotata di un grosso potere, io l'ho provato e la mia vita e' cambiata. ho la necessita' di condividere con tutti questa cosa, perche' all'inizio ero cosi' scettico e lontano da mondi di questo tipo e ci scherzavo sopra, ma un giorno in un momento di totale disperazione ,e smarrimento ,ho dato retta al sensitivo che mi aveva consigliato di usarla e dopo un mese tutti i miei problemi sono svaniti. Non stiamo parlando di volgari speculazioni da cartomanti truffaldini non ci sono soldi da versare ma solo a risultato ottenuto dovete mandarmi la vostra esperienza solo questo. Ora vi invito se volete partecipare a questa esperienza di scaricarvi la foto di questo quadro e porla in un posto dove nessuno tranne voi puo' vederla e quando ne avrete bisogno dovete accendere un candela rossa e focalizzare la vostra attenzione sul quadro per 33 minuti pensando intensamente quello che desiderate. All'inizio sarete distratti da mille stimoli ma con l'allenamento riuscirete a concentrarvi se lo farete con fede l'angelo occulto che si cela dietro questi colori vi apparira' ( solo allora potrete chiedere quello che vi interessa) e voi assisterete a un vero miracolo,il cambiamento totale della vostra persona diventerete piu' positivi piu' fortunati e riuscirete a tenere distanti tutti i negativi che vi si avvicineranno. Con Amore Hypnos